Time to move

Preso dall’entusiasmo per i contatti del blog, ho deciso di comprare un dominio tutto mio, e cimentarmi nella personalizzazione di wordpress.

Il blog si è spostato a questo indirizzo:

www.sociologico.it

ci vediamo lì!

Giovanhard

Succede, in Italia, che una grande multinazionale lancia una campagna pubblicitaria in cui due persone dello stesso sesso sono ritratte di spalle mentre sono mano nella mano, accanto al claim “Siamo aperti a tutte le famiglie”.

In Italia però succede anche che il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega alle Politiche della Famiglia, della Droga, e del Servizio Civile Nazionale (!!!) Carlo Giovanardi si scaglia scontro questa campagna pubblicitaria, reputandola addirittura anticostituzionale (sic.) e sostenendo che l’unica famiglia riconosciuta è quella formata da un uomo e una donna sposati.

A questa dichiarazione di Giovanardi, gli italiani che ancora non si sono stancati di indignarsi hanno risposto con un flash mob organizzato attraverso Facebook (che si conferma strumento eccellente di mobilitazione), dandosi appuntamento davanti ai magazzini Ikea a Roma e in altre città d’Italia per scambiarsi un bacio libero contro le discriminazioni, per i diritti di tutti le famiglie.

E così, ci siamo ritrovati davanti Ikea a Porta di Roma per un bacio freeze lungo un minuto.

La risposta più sensata, creativa, provocatoria, che si potesse dare ad uno dei nostri tanti rappresentanti politici che – ahinoi – sono alla guida del nostro paese. Una classe politica gerontocratica, di un’altro secolo, che costringe l’Italia e noi cittadini a vivere in un eterno presente in cui tutto rimane com’è, senza proiettare nel futuro la loro progettualità politica. Soprattutto per quanto riguarda i diritti civili.

In Italia vivono attualmente 5.000.000 di omosessuali e 1.000.000 di coppie di fatto di cui oltre 250.000 composte da persone dello stesso sesso.

La battaglia per l’estensione dei diritti è una battaglia di democrazia: riconoscere a tutti il diritto di avere diritti significa vivere in un paese più giusto, in cui non ci sono cittadini di serie A e cittadini di serie B.

Riconoscere agli omosessuali, alle coppie convinventi, ai genitori single lo status di famiglia, significa sganciare questa idea da quella della sacra unione matrimoniale (che non disprezzo, sia chiaro. Io sono felicemente e volutamente sposato) e associarla a quella – più moderna – di progettualità comune, di riconoscimento e di rispetto che prescinde da un foglio di carta firmato davanti a un messo comunale, o a un prete.

Siamo nel ventunesimo secolo. Entriamoci sul serio, e liberiamo l’Italia dall’oscurantismo e dall’ipocrisia che non le permettono – pienamente e finalmente – di essere un paese al passo con i tempi che vive.

Il 6 maggio lo sciopero è anche precario!

Il Comitato 9 Aprile non si ferma, e invita tutti i precari a sospendere il lavoro il 6 maggio per lo sciopero generale. Ecco l’appello.

Il 9 aprile la nostra generazione si è presa la scena, non solo portando in piazza la condizione di precarietà da cui vogliamo liberarci, ma anche dimostrando che siamo la buona notizia in un paese quotidianamente umiliato da chi ci governa.
Con il 9 aprile abbiamo chiesto a tutti di prendere posizione sull’emergenza precarietà, e hanno risposto in molti.
Le nostre istanze sono state gridate in maniera netta da tutte le piazze: vogliamo che ad un lavoro stabile corrisponda un contratto stabile; che siano garantiti a tutti, anche ai lavoratori strutturalmente discontinui, gli stessi diritti, compresa la certezza della retribuzione; che sia garantita la continuità di reddito per chi ha perso il lavoro, chi lo cerca, chi non lo trova; che sia garantita alle nuove generazioni piena autonomia, accesso alla casa, alla cultura, al sapere.
Il 9 aprile si è manifestato il popolo degli invisibili, i nuovi ghostwriter, coloro che non hanno volto e voce nel dibattito pubblico, ma soprattutto un popolo che ha capito che solo attraverso l’azione collettiva è possibile riconquistare i diritti negati.
Per questo il 9 aprile è stato solo l’inizio.
L’inizio di un percorso che vogliamo sia lungo e incisivo e che ha già un appuntamento da non mancare: lo sciopero generaleindetto per il 6 maggio dalla CGIL.

Il paese intero è chiamato a fermarsi e manifestare, contro una politica che continua a far pagare ai più deboli i costi della crisi e mette in discussione i diritti fondamentali, tra cui la rappresentanza e la democrazia sindacale.
Gli stessi diritti fondamentali che i precari non hanno mai visto e conosciuto, come la malattia, il diritto di voto per la rappresentanza sindacale, lo stesso diritto di sciopero.
Siamo utilizzati come un esercito di riserva, un popolo a diritti zero e disposto a tutto, che suo malgrado è diventato la scusa per indebolire le tutele collettive, conquistate in anni di lotte sindacali e sancite nei contratti collettivi di lavoro. Quelle tutele che qualcuno preferisce strumentalmente definire “privilegi” per pochi, piuttosto che patrimonio di tutti.

Il 6 maggio la nostra condizione deve diventare il cuore dello sciopero: perché per difendere i diritti è necessario estenderli a tutti. E’ questa la grande sfida del movimento dei lavoratori.
La nostra unica forza è infatti la solidarietà, l’unico strumento per combattere la ricattabilità e migliorare concretamente la condizione di ognuno.
Vogliamo costruire una giornata in cui i lavoratori precari siano i protagonisti e possano prima di tutto rivendicare, in tutte le forme possibili, il diritto di sciopero.
Un diritto intrinsecamente negato ai precari. Un precario o un autonomo che decide di astenersi dal lavoro lo fa a proprio rischio e pericolo: chi per l’estrema ricattabilità a cui è sottoposto; chi, perché lavorando a progetto, carica su di sè il lavoro mancato; chi perché non vedrà conteggiato il proprio giorno di sciopero, tecnicamente inesigibile per alcune tipologie.

Il 6 maggio vogliamo uscire dall’invisibilità e chiediamo a tutti di partecipare, aderendo alla campagna “Precari/e in sciopero!” e rendendo ovunque visibile il logo (profilo facebook, posto di lavoro, abitazione..).
Chiediamo a tutti i precari di sfidare collettivamente il ricatto, di renderlo pubblico, di raccontare la propria esperienza condividendo una battaglia comune per l’affermazione dei diritti.
Saremo tutti con voi – se vorrete – davanti al posto di lavoro e in piazza.
A chi non potrà scioperare chiediamo di aderire attraverso il sito, raccontando perché non potrà farlo, perché i ricatti che subiamo diventino oggetto di una denuncia collettiva e perché chi sciopererà possa portare simbolicamente in piazza con sé anche la condizione di chi non potrà esserci
Il 6 maggio l’Italia si ferma, fermiamoci anche noi!
Il 6 maggio noi ci saremo, per dimostrare a questo paese quanto vale il nostro lavoro e quanto vale la nostra dignità. Per cambiare i rapporti di forza, sappiamo di poterci riuscire, insieme.

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Aderisci alla campagna PRECARI/E IN SCIOPERO!

Scarica il logo e usalo come tuo avatar su facebook, nella tua postazione di lavoro, nel tuo pc, ovunque tu vorrai.

Scriveteci e raccontateci:

-L’esperienza di organizzazione dello sciopero nella vostra realtà lavorativa, sfidiamo insieme il ricatto: il 6 maggio renderemo pubblico lo sciopero dei precari.
-La vostra modalità di sciopero (qualsiasi essa sia….), e raccontateci perchè vi è negato il diritto di sciopero. Sarete simbolicamente in piazza con noi.

Non esistate a condividere tutto ciò che vorrete foto, video…inviatele a info@ilnostrotempoeadesso.it

E adesso picchiaci tutti

Una storia orribile. Non c’è altro aggettivo per descrivere quello che è accaduto a Sara, giovane commessa romana di un negozio di intimo nel centro commerciale Porta di Roma della capitale.

Ricevuta la sua busta paga, si accorge della mancata retribuzione delle cinquanta ore di straordinario maturate. La titolare del negozio prima si rifiuta di corrisponderle il dovuto, e successivamente cerca di costringere Sara a firmare la lettera di dimissioni. Di fronte ad un rifiuto, la titolare – Vera Emilio – perde la testa e la picchia selvaggiamente dopo averla trascinata nel magazzino, di fronte agli occhi attoniti delle altre commesse. Percosse guaribili in quindici giorni secondo il referto dell’INAIL, come anche dimostrato dal servizio de Le Iene, che ha sollevato il caso a livello mediatico.

Facebook – che conferma le sue potenzialità come piattaforma capace di generare partecipazione – ha fatto il resto, permettendo a centinaia di persone di mobilitarsi e ritrovarsi sabato scorso di fronte all’entrata del negozio di Tezenis nel centro commerciale, per esprimere solidarietà nei confronti di Sara e sdegno per questo episodio di prevaricazione sul lavoro così odioso e insopportabile. Episodio aggravato dalle frasi che la “padrona” avrebbe pronunciato mentre picchiava Sara quando questa la supplicava di smettere: «Non mi fanno pena neanche i cani, io mi inchino solo al Duce».

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Se il Secolo d’Italia si scopre vicino ai precari

Una mia intervista sulla manifestazione del 9 Aprile nientepopodimenoche al Secolo d’Italia, sul supplemento domenicale tutto dedicato ai temi della precarietà.

Un altro successo della manifestazione, a mio avviso: essere riusciti a trovare interlocutori anche al di fuori del nostro panorama politico di riferimento, disposti a dialogare su questi temi.

Bene così.

Il 9 aprile è solo l’inizio

mi va, mi va e voi venite con me
la libertà non ama i clichès…
io voglio la vita più vera che c’è.

E’ questo un brano del ritornello della canzone che – casualmente o no – è stata scelta come colonna sonora della giornata del 9 aprile, e che racchiude bene gli intenti, i desideri, le speranze che hanno alimentato le intense giornate e le lunghe nottate precedenti alla manifestazione. Raccontano di una voglia di essere protagonisti del proprio tempo, della ricerca di una condivisione di esperienze e di pratiche per sentirsi meno soli e più forti. Esprimono la volontà di voler finalmente raccontarsi in prima persona, ognuno con le proprie difficoltà, le proprie ambizioni, il proprio progetto di vita che non nessuno vuole abbandonare e nemmeno più rimandare.

E’ stata questa, in estrema sintesi, la sfida lanciata dalla piazza del 9 aprile che ha portato in piazza, in tutta Italia, decine di migliaia di lavoratori precari, autonomi, finto-dipendenti, intermittenti dello spettacolo, studenti.

Dopo ogni appuntamento, è inevitabile tracciare un bilancio che ne valorizzi i punti di forza, i risultati ottenuti e le criticità. Il primo risultato è stato senza dubbio l’essere riusciti a creare una rete di soggetti e associazioni, talvolta molto piccole, fino ad ora disperse e lontane tra loro per pratiche politiche e orientamenti sociali e culturali: praticanti avvocati, giornalisti, ricercatori, imprenditori, sindacalisti, giovanili di partito, vincitori di concorso non assunti, lavoratori portuali, intermittenti dello spettacolo, reti di studenti, operatori di call center.

Sensibilità e percorsi così diversi, incontrandosi, hanno permesso un confronto ed una contaminazione reciproca che ha innescato un circolo virtuoso dirompente per efficacia, creatività e elaborazione di contenuti e proposte. Riuscendo a portare in primo piano il tema della precarietà anche all’interno di quei soggetti e quelle organizzazioni, come la CGIL, che fino ad ora si erano relazionate al tema della precarietà, della questione generazione, dell’estensione dei diritti e del welfare in modo tiepido e poco incisivo. La contaminazione, l’essere riusciti a fare tutti più o meno un piccolo passo indietro rispetto alle proprie posizioni e pratiche per farne uno più lungo tutti insieme ha permesso di avviare un meccanismo di fiducia e di riconoscimento reciproco indispensabile per la riuscita della manifestazione.

L’essere uomini e donne del proprio tempo va anche dimostrato, agito, e non solo declamato. L’organizzazione del 9 aprile ha dimostrato anche questo: c’è una generazione che si muove con grande disinvoltura, senza timore reverenziale, nel periglioso terreno dell’arena politica e mediatica, ed è capace di incidere su di essa sperimentando linguaggi e forme comunicative e politiche diverse, innovative. La manifestazione ha ottenuto un altro grande risultato: l’essere riuscita a farsi largo e imporsi nell’agenda politica e mediatica in un momento in questa era ed è totalmente assorbita dalle ormai consuete vicende giudiziarie del nostro Presidente del Consiglio, dal dibattito sul nucleare a seguito del terremoto in Giappone, dalla guerra in Libia e le sue conseguenze sulla politica estera e sull’afflusso di migranti nel nostro paese.

Non sì è solamente imposta, ma ha anche spostato l’attenzione del dibattito sulla precarietà non più nella ormai ritrita contrapposizione tra garantiti e non garantiti, ma ha mostrato chiaramente che il problema non è lì. Nessuno pensa di togliere a chi ciò che ha se l’è sudato e guadagnato con una vita di lavoro. Essere riusciti a spostare l’asse del dibattito significa aver introdotto al suo interno delle proposte concrete di ripensamento del welfare, affinché possa essere veramente universale: continuità di reddito, accesso al credito, diritto all’abitare. Se da un lato si è sollevata la questione declinandola a partire dai diritti negati ai precari, dall’altra si è espressa in modo chiaro la questione della rappresentanza. Una generazione di giovani ventenni e trentenni che si è stancata di portare sulle spalle la croce di una crisi di un sistema produttivo e un modello di welfare che si tiene in piedi soprattutto grazie a ciò che a questa generazione è negato.

Sollevando con forza il desiderio di rappresentarsi, di raccontarsi e di mettersi alla prova, perché l’Italia di oggi è uno specchio in cui non si riconosco e non hanno nessuna intenzione di delegare ad altri la propria voce.

Promettendo – tutti quanti – che il 9 Aprile è stato solo l’inizio.

9 Aprile, adesso

Che cosa racconteremo, ai figli che non avremo, di questi cazzo di anni Zero? canta così Vasco Brondi, in una traccia del primo disco de «Le luci della centrale elettrica».

Una frase che racchiude il disagio di due generazioni, quella dei ventenni e dei trentenni di oggi, messe all’angolo da un sistema di precarizzazione del mercato del lavoro che ha fatto si che, da condizione materiale, la precarietà si sia fatta condizione esistenziale, di vita.

Per questo il 9 aprile centinaia di migliaia di precari, parasubordinati, giovani professionisti, studenti, stagisti, lavoratori autonomi a partita Iva, disoccupati scenderanno in piazza a Roma e in oltre cinquanta città italiane per urlare a gran voce che la precarietà va posta al centro dell’agenda politica e superata attraverso delle riforme radicali del sistema di welfare e del mercato del lavoro.

«Il nostro tempo è adesso. La vita non aspetta». È questo lo slogan che titola l’appello firmato da 14 promotori e che ha ricevuto migliaia di adesioni. Persone diverse tra loro per percorsi professionali, competenze, esperienze di vita si sono ritrovate nella comune condizione di instabilità e di precarietà, e hanno lanciato attraverso la rete l’appello a scendere in piazza e a urlare la rabbia di una generazione abbandonata a se stessa, che paga sulle proprie spalle la crisi e le troppe scelte disastrose e miopi degli ultimi 15 anni.

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Comunicazione precaria

Le esperienze di attualizzazione di pratiche politiche e sperimentazione di nuovi linguaggi cominciano a registrare un’ampia casistica, anche qui in Italia dove certamente – a parte qualche caso illuminato – non possiamo certo dirci all’avanguardia. Le difficoltà a farsi spazio in un’arena comunicativa pietrificata dall’eterno presente berlusconiano da un lato e dalle composte e canoniche pratiche di mobilitazione della sinistra istituzionale dall’altro cominciano a essere superate, soprattutto grazie alla Rete e alle sue potenzialità.

L’organizzazione della manifestazione del prossimo 9 Aprile sulla precarietà e sulla questione generazionale “Il nostro tempo è adesso. La vita non aspetta” è solo l’ultima di una lista di esperienze che, da qualche anno, stanno cercando di innovare e sperimentare nuove forme di fare politica e di veicolarne i messaggi. Far scendere in piazza i precari è complesso e faticoso per la natura stessa della figura contrattuale intermittente, con percorsi lavorativi discontinui e spesso atomizzati, assenza di diritti, bassa sindacalizzazione. Pensare di farlo con gli strumenti classici – proprio per questi motivi – è praticamente impossibile.

Anche perché oggi, in Italia, il tema della precarietà è affrontato in maniera bipartisan in termini ambigui e tentennanti. Per questi e altri motivi una generazione precaria, sfruttata e denigrata, ha deciso di auto-rappresentarsi per restituire un’immagine di sé più autentica e complessa rispetto a quella costruita su stereotipi dai canali mainstream. E l’ha fatto utilizzando i nuovi strumenti di comunicazione forniti dal web e dalle nuove tecnologia dell’informazione, che permettono di agire direttamente sul messaggio veicolato e sull’audience da raggiungere. Si sono quindi prodotti video, contenuti multimediali, si è puntato sulla creatività e sulla sperimentazione di nuovi linguaggi politici, su forme non convenzionali di promozione del messaggio della manifestazione.

La passeggiata di zombie precari per le strade della città, uno speaker corner precario la domenica mattina nell’affollato mercato romano di Porta Portese, l’azione di “disturbo” della presentazione del film di Boris sono esempi chiari di una generazione che ha deciso di raccontarsi e autorappresentarsi con ciò che la rispecchia di più: l’ingegno, la gioia, la creatività.

Il web 2.0 (i social network come Facebook, Youtube, Twitter su cui poi queste azioni vengono rilanciate) abilita processi di disintermediazione tali da parlare, più che di audience, piuttosto di parlance, per sottolineare il ruolo attivo nella costruzione di senso che gli attori sociali hanno all’interno della rete. Manuel Castells, nel suo recente Comunicazione e Potere, sostiene come le recenti innovazioni nel web denominate web 2.0 e web 3.0, grazie a dispositivi e applicazioni che hanno favorito l’espandersi di spazi sociali sulla Rete Internet, siano alla base della trasformazione radicale dei meccanismi di comunicazione. La rete Internet ha permesso l’affermarsi di una mass self-communication: una comunicazione che ha le potenzialità di raggiungere una platea globale, e perciò di massa, ma al contempo auto-comunicazione in quanto auto-generata, i cui destinatari sono auto-individuati, con un’auto-selezione dei contenuti da veicolare.

Attraverso questa forma di comunicazione, si costruiscono sistemi personali di comunicazione di massa che si basano su blog, siti web, flussi informativi audio e video, spazi sociali sul web, wiki, elaborando il contenuto sulla base del proprio orientamento individuale e al contempo inserendosi in una comunicazione many-to-many. Questi nuovi strumenti di mass self-communication forniscono agli attori dei movimenti sociali e culturali contemporanei delle forme organizzative e di comunicazione estremamente più efficaci e decisive, segnando un definitivo strappo con le forme organizzative classiche proprie dei partiti, dei sindacati, delle associazioni tradizionali. Con l’affermarsi nella vita sociale contemporanea di un modello di società in Rete, al principio di generalità proprio del processo produttivo che caratterizzava la società industriale e che generava un senso di sameness, di uguaglianza – base della solidarietà e della coscienza di classe dei movimenti sociali dell’epoca – si sostituisce un principio d’individualità che porta l’individuo al centro della “struttura sociale”, incidendo di conseguenza sulla natura dei conflitti e dei movimenti contemporanei.

Si evidenzia così l’emergere di nuove soggettività, che non puntano più alla difesa ed all’affermazione di identità collettive attraverso categorie socialmente definite, ma si costituiscono come forme di resistenza ad un dominio “desoggettivante” – come quello della precarietà – attraverso l’esperienza individuale e la ricerca di nuove forme di azione politica. Nuove soggettività che sanno sorridere di se stesse, perché credono che il tempo del riscatto sia arrivato.

I rischi della precarietà

Un’indagine dell’IRES, curata da Daniele Di Nunzio, mette in evidenza come il legame tra precarietà e rischi sul lavoro sia direttamente proporzionale.

Nel 2009, in Italia, un infortunio sul lavoro su tre ha coinvolto un lavoratore sotto i 35 anni (precisamente, l’Inail ne ha registrati 262.233) così come un morto sul lavoro su tre (questo dramma riguarda 295 giovani morti sul lavoro in un anno e le loro famiglie). In cinque anni, tra il 2005 e il 2009, 44.478 lavoratori sotto i 35 anni hanno subito un danno permanente a causa di un incidente sul lavoro, ossia un’invalidità che li segnerà per il resto della loro vita. E proprio i giovani hanno il tasso infortunistico più elevato: secondo le nostre elaborazioni si registrano 5,06 infortuni ogni 100 occupati per chi ha fino a 34 anni e 3,72 infortuni ogni 100 occupati per chi ha più di 34 anni.

Sono dati che spiegano come i giovani, oltre a dover subire difficoltà occupazionali e la dequalificazione all’interno dei processi produttivi, vivono anche il dramma poco rilevato delle difficili condizioni di lavoro. Condizioni che hanno un impatto negativo sul loro stato di salute, comportando un malessere fisico e psicologico.

L’Ires (Istituto di ricerche economiche e sociali) ha svolto una ricerca sulle condizioni di lavoro dei giovani – finanziata dal ministero del Lavoro – che sarà pubblicata a breve dalla casa editrice Ediesse. Oltre a condurre un’analisi delle statistiche ufficiali, sono stati intervistati mille lavoratori sotto i 35 anni, di diversa tipologia professionale e contrattuale, su tutto il territorio nazionale, tramite un questionario telefonico. Dalla ricerca emerge il vissuto reale dei giovani al lavoro. L’obiettivo è quello di fornire degli elementi di riflessione sulla questione generazionale, per individuare i fattori di rischio e contribuire a orientare gli interventi delle istituzioni e delle parti sociali.

Spesso, si giustifica il rischio per la salute dei giovani lavoratori con la loro minore esperienza. È doveroso precisare che questa argomentazione non trova nessuna giustificazione nella legge, che prevede che la tutela sia massima per tutti attraverso un’adeguata prevenzione. D’altra parte, proprio la ricerca dell’Ires dimostra che la dura realtà del lavoro per i giovani è la ragione primaria della loro elevata esposizione ai fattori di rischio.

Osservando il carico da lavoro dal punto di vista fisico, dalle interviste emerge che molti giovani lavorano sotto sforzo e in situazioni di rischio. È insomma smascherata la retorica di una generazione che fugge dal lavoro di fatica: più di un giovane lavoratore su tre solleva carichi pesanti o fa degli sforzi fisici considerevoli (35,2%); quasi un giovane lavoratore su cinque ammette di lavorare in condizioni di effettivo pericolo (17,8%).

Considerando il carico di lavoro dal punto di vista organizzativo, emerge l’elevata intensità dei ritmi di lavoro che caratterizza sia le mansioni operaie che quelle concettuali: circa due lavoratori su tre hanno un ritmo di lavoro eccessivo (60,5%); la metà del campione lavora con scadenze rigide e strette (il 48,0%) e non ha abbastanza tempo per svolgere il lavoro (47,5%).

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Prossima fermata Napoli

Si riparte.

E ci si ferma a Napoli, questa volta. Per parlare (anche) di precarietà.

Qui l’evento su FB